le vite degli altri

HO SCELTO QUEST'IMMAGINE PERCHE' ANCHE QUESTA SAREBBE UNA BELLA STORIA DA RACCONTARE... E CREDO LO FARO'..
Lei guardò dal finestrino.
Le immagini scorrevano veloci, circa a 280 km all'ora se si prestava fede all'insegna luminosa sul fondo della carrozza.
Il cielo coperto e un sottile strato di nebbia coloravano tutto nei toni del grigio.
Le era sempre piaciuto viaggiare in treno.
Le dava il senso dello scorrere cadenzato del tempo.
Niente frenate, niente soste in autogrill pieni di vita, niente stop improvvisi o accelerazioni dovute all'impazienza.
Non bisognava stare coi sensi all'erta in treno, in treno si poteva vivere senza preoccuparsi, perdendosi anche un po'.
Nei propri pensieri, nelle storie che raccontavano le campagne che correvano accanto, nelle vite che popolavano i sedili adiacenti.
Da ragazzina, con sua madre, amava fare il gioco “delle vite degli altri”.
Era un gioco sciocco, un filo invadente era un allenare la fantasia.
Consisteva nell'inventarsi vite.
Tutto poteva servire.
Dai vestiti, più o meno ricercati, dal loro stato d'usura, dal modo in cui venivano indossati, se con disinvoltura o disagio.
Le scarpe dicevano sempre molto.
Poste alla fine della persona, erano sempre un chiaro segnale se un eleganza era vera o apparente.
Spesso chi non aveva innato il dono della classe verso le periferie si perdeva.
Per le donne i segnali importanti erano mani e capelli, unghie laccate perfettamente o smalti lievemente sbeccati, capelli curati con però un accenno di ricrescita.
Insomma tutto influiva a creare storie.
Ma l'anima della storia la raccontavano gli occhi, il sorriso.
Potevano esserci creature perfette con duri cipigli e fare annoiato o cuori dall'aspetto non impeccabile con sorrisi splendenti e occhi volti al futuro.
Perché il viaggio in treno questo era, un viaggio verso il futuro.
E non aveva importanza se fosse solo in direzione 6 ore di lavoro in compagnia sempre della stessa gente o avesse una destinazione ignota e lontana per uno stravolgimento radicale della vita.
Sempre futuro era.
E magari, inaspettatamente, avrebbe portato più cambiamenti un viaggio di 35 minuti verso una scrivania che mettere 500 km tra la propria esistenza e la speranza di una nuova.
Era l'atteggiamento che avrebbe cambiato il risultato.
Lo stesso percorso che faticosamente, e con un po' di noia, si ripeteva uguale ogni mattina poteva portare incontri e cambiamenti se solo si fosse stati attenti ad accoglierli, così come 500 km non avrebbero potuto mai essere sufficienti per scappare da se stessi.
Di storie ne avevano inventate tante e a qualcuna si era affezionata, le era rimasta impressa come lo strascico di un racconto sentito per sbaglio che ci colpisce dentro.
Ricordava quella della donna corpulenta salita a Bologna anni prima, aveva mani forti e sciupate, un vestito dozzinale e delle scarpe lucide, erano quelle della festa si vedeva, capelli freschi di piega e una borsa nera con la chiusura a giro e il manico corto.
Una valigia nova di zecca dai colori sgargianti come se tutta la sua allegria si fosse sprigionata nell'atto dell'acquisto.
Loro pensarono fosse una valigia importante, quella del primo viaggio e non importava se l'età non fosse più giovane, il primo viaggio va celebrato bene, con tutti i crismi e tutti i riti del caso.
Se la immaginarono diretta verso un figlio lontano, ormai cittadino di un mondo diverso, un mondo distante che non le apparteneva, in figlio che aveva preso le proprie radici e dopo averle ringraziate le aveva recise per incominciare a vivere.
Ma dalle tue radici non puoi andare troppo distante, quelle a volte prendono e ti vengono a bussare alla porta, vengono a ricordarti chi sei.
E magari, nel caso della donna lo fanno ricordandoti cosa sono le tagliatelle fatte in casa, che lei, a Bologna, aveva imparato da bambina ad impastare.
Ma quelle erano radici benevole, avrebbero ricordato, avrebbero rinnovato amore e se ne sarebbero andate, magari sorridendo come stavano facendo ora e salutando avrebbero riformulato l'augurio fatto quando a prendere quel treno era stato lui.
Il ricordo era nitido, il ricordo di una stazione e di quel vagone che l'avrebbe portato via e quelle parole emozionate ma non lacrimevoli, quelle parole che erano tutto “Ciao amore...fai buon viaggio, fai buona vita...e chiama... quando puoi”.
Lei guardò dal finestrino.
Le immagini scorrevano veloci, circa a 280 km all'ora se si prestava fede all'insegna luminosa sul fondo della carrozza.
Il cielo coperto e un sottile strato di nebbia coloravano tutto nei toni del grigio.
Le era sempre piaciuto viaggiare in treno.
Le dava il senso dello scorrere cadenzato del tempo.
Niente frenate, niente soste in autogrill pieni di vita, niente stop improvvisi o accelerazioni dovute all'impazienza.
Non bisognava stare coi sensi all'erta in treno, in treno si poteva vivere senza preoccuparsi, perdendosi anche un po'.
Nei propri pensieri, nelle storie che raccontavano le campagne che correvano accanto, nelle vite che popolavano i sedili adiacenti.
Da ragazzina, con sua madre, amava fare il gioco “delle vite degli altri”.
Era un gioco sciocco, un filo invadente era un allenare la fantasia.
Consisteva nell'inventarsi vite.
Tutto poteva servire.
Dai vestiti, più o meno ricercati, dal loro stato d'usura, dal modo in cui venivano indossati, se con disinvoltura o disagio.
Le scarpe dicevano sempre molto.
Poste alla fine della persona, erano sempre un chiaro segnale se un eleganza era vera o apparente.
Spesso chi non aveva innato il dono della classe verso le periferie si perdeva.
Per le donne i segnali importanti erano mani e capelli, unghie laccate perfettamente o smalti lievemente sbeccati, capelli curati con però un accenno di ricrescita.
Insomma tutto influiva a creare storie.
Ma l'anima della storia la raccontavano gli occhi, il sorriso.
Potevano esserci creature perfette con duri cipigli e fare annoiato o cuori dall'aspetto non impeccabile con sorrisi splendenti e occhi volti al futuro.
Perché il viaggio in treno questo era, un viaggio verso il futuro.
E non aveva importanza se fosse solo in direzione 6 ore di lavoro in compagnia sempre della stessa gente o avesse una destinazione ignota e lontana per uno stravolgimento radicale della vita.
Sempre futuro era.
E magari, inaspettatamente, avrebbe portato più cambiamenti un viaggio di 35 minuti verso una scrivania che mettere 500 km tra la propria esistenza e la speranza di una nuova.
Era l'atteggiamento che avrebbe cambiato il risultato.
Lo stesso percorso che faticosamente, e con un po' di noia, si ripeteva uguale ogni mattina poteva portare incontri e cambiamenti se solo si fosse stati attenti ad accoglierli, così come 500 km non avrebbero potuto mai essere sufficienti per scappare da se stessi.
Di storie ne avevano inventate tante e a qualcuna si era affezionata, le era rimasta impressa come lo strascico di un racconto sentito per sbaglio che ci colpisce dentro.
Ricordava quella della donna corpulenta salita a Bologna anni prima, aveva mani forti e sciupate, un vestito dozzinale e delle scarpe lucide, erano quelle della festa si vedeva, capelli freschi di piega e una borsa nera con la chiusura a giro e il manico corto.
Una valigia nova di zecca dai colori sgargianti come se tutta la sua allegria si fosse sprigionata nell'atto dell'acquisto.
Loro pensarono fosse una valigia importante, quella del primo viaggio e non importava se l'età non fosse più giovane, il primo viaggio va celebrato bene, con tutti i crismi e tutti i riti del caso.
Se la immaginarono diretta verso un figlio lontano, ormai cittadino di un mondo diverso, un mondo distante che non le apparteneva, in figlio che aveva preso le proprie radici e dopo averle ringraziate le aveva recise per incominciare a vivere.
Ma dalle tue radici non puoi andare troppo distante, quelle a volte prendono e ti vengono a bussare alla porta, vengono a ricordarti chi sei.
E magari, nel caso della donna lo fanno ricordandoti cosa sono le tagliatelle fatte in casa, che lei, a Bologna, aveva imparato da bambina ad impastare.
Ma quelle erano radici benevole, avrebbero ricordato, avrebbero rinnovato amore e se ne sarebbero andate, magari sorridendo come stavano facendo ora e salutando avrebbero riformulato l'augurio fatto quando a prendere quel treno era stato lui.
Il ricordo era nitido, il ricordo di una stazione e di quel vagone che l'avrebbe portato via e quelle parole emozionate ma non lacrimevoli, quelle parole che erano tutto “Ciao amore...fai buon viaggio, fai buona vita...e chiama... quando puoi”.