non andare via...anzi vattene
Se volete avere un sottofondo adeguato ascoltatevi la canzone mentre leggete, è molto bella.
Declino ogni responsabilità nel caso non foste quietamente allegri e al suo ascolto vi venisse l'insano impulso di soffocarvi con le Pringles alla paprica.
E mi sono ritrovata a pensare al primo amore.
O almeno, non alla persona che lo ha rappresentato, ma a come stavo, cosa provavo e come mi sentivo.
Partiamo dalle regole: per amore non intendo amore a livello biblico, perché se così fosse avrei ben poco da scrivere, per amore intendo la testa leggera, il cuore in bambola, la gelosia, insomma tutto il pacchetto standard.
E mi sono chiesta perché, come si identifica il primo amore.
Non sempre è veramente il primo, magari si hanno già avute storie, uscite, sbaciucchiamenti vari.
Ma quello lì, lui, fa da spartiacque. È quello indelebile, quello da raccontare alle figlie che piangono sul letto alla prima delusione, quello da prendere ad esempio per inculcare l’idea che poi passa.
Che non si può piangere in eterno, che alla fine una ragione ce la si fa.
Che ci vuole solo un po’ di tempo.
Il tempo che un altro orbiti nel nostro cielo e cancelli il risultato della partita iniziando a segnare i punti di quella nuova dalla lavagna.
E pensando a questo mi son risposta.
Il primo amore s’identifica col primo stronzo che ci ha spezzato il cuore.
Che poi, povero, non è che fosse così stronzo, o almeno non più di quando lo eravamo state noi con quelli prima di lui.
Quando ti spezzano il cuore a 16 anni è un delirio.
Una cosa a cui ripensare ogni tanto, quando magari ci viene la nostalgia dell’adolescenza.
Perché rendersi conto di quello che siamo riuscite a fare e dire dopo l’addio ci dà la netta sensazione che il peggio sia passato.
Nel delirio post abbandono si scrivevano poesie terribili, con riferimenti funebri al proprio cuore, quasi un requiem per i sentimenti.
Si passava dal divano al letto trascinando le ciabatte infilate in pigiami informi.
Ma quello che la faceva da padrone era la musica.
Ore e ore a riascoltare le stesse cassette, e se non sapete cosa fossero forse siete sul blog sbagliato, se non la stessa canzone.
Quasi mai allegra, quasi sempre d’amore.
Una roba straziante, da terapia di supporto, non per noi è ovvio, noi la terapia la stavamo già facendo, ma per chi era obbligato a vivere con noi.
La mia prima delusione d’amore coincise con l’uscita di una doppia cassetta con il concerto di Gino Paoli e Ornella Vanoni.
Insieme si chiamava.
Ed era veramente bellissimo, un disco epocale.
Due artisti immensi che chiaramente si erano tanto amati e che condividevano il palco con complicità e classe.
Se il tuo umore era normale tendente all’allegro.
Altrimenti era una catastrofe.
Una cosa di uno strazio oltre misura, al limite del suicidio tramite impiccagione direttamente con il nastro.
Ecco è con quel disco che io pensai, in un estate di quasi trent’anni fa, di farmela passare.
Sdraiata per terra sulla moquette, erano gli anni 80, con il radione di fianco e la voce nasale della Vanoni che tentava di convincermi che domani è un altro giorno si vedrà, ma non appena mi pareva di crederci partiva bastarda a ricordarmi non andare via io sarò solo l’ombra, l’ombra della tua ombra, l’ombra della tua mano l’ombra del tuo cane…
E rientravo nel loop dei singhiozzi senza soluzione di continuità, con mia mamma e mia sorella che a turno si affacciavano sulla porta e scrollando la testa commentavano cose tipo: non ha più niente d’umano, sì almeno si è tolta il pigiama, lascia stare non mangia.
Ma poi capita il giorno in cui tutto diventa chiaro.
O almeno per me è stato così.
Interno soggiorno.
Io sdraiata, una tazza di te di fianco, Ornella che mi dice che accettare l’appuntamento è stata una follia e io che penso a non andare via non andare via.
La porta si apre, mia sorella entra, ma non come al solito in punta di piedi, no, entra con passo da bersagliere e ad ampie falcate raggiunge me e il registratore.
Si china, fa scattare il pulsate di stop, quello di eject e togliendo la cassetta la scaraventa con un lancio olimpionico dalla finestra dicendomi secca “adesso mi hai rotto i coglioni”.
E se ne va come una folata di vento, esattamente come era comparsa.
È stato in quel momento, quando la prima cosa a passarmi per la testa fu “cazzo no! l’avevo pagata io, mi piaceva” che capii di essere guarita.
Perché guarire bisogna guarire da soli, ma a volte qualcuno che ti aiuta a capire che sei pronta a girar pagina serve.
Declino ogni responsabilità nel caso non foste quietamente allegri e al suo ascolto vi venisse l'insano impulso di soffocarvi con le Pringles alla paprica.
E mi sono ritrovata a pensare al primo amore.
O almeno, non alla persona che lo ha rappresentato, ma a come stavo, cosa provavo e come mi sentivo.
Partiamo dalle regole: per amore non intendo amore a livello biblico, perché se così fosse avrei ben poco da scrivere, per amore intendo la testa leggera, il cuore in bambola, la gelosia, insomma tutto il pacchetto standard.
E mi sono chiesta perché, come si identifica il primo amore.
Non sempre è veramente il primo, magari si hanno già avute storie, uscite, sbaciucchiamenti vari.
Ma quello lì, lui, fa da spartiacque. È quello indelebile, quello da raccontare alle figlie che piangono sul letto alla prima delusione, quello da prendere ad esempio per inculcare l’idea che poi passa.
Che non si può piangere in eterno, che alla fine una ragione ce la si fa.
Che ci vuole solo un po’ di tempo.
Il tempo che un altro orbiti nel nostro cielo e cancelli il risultato della partita iniziando a segnare i punti di quella nuova dalla lavagna.
E pensando a questo mi son risposta.
Il primo amore s’identifica col primo stronzo che ci ha spezzato il cuore.
Che poi, povero, non è che fosse così stronzo, o almeno non più di quando lo eravamo state noi con quelli prima di lui.
Quando ti spezzano il cuore a 16 anni è un delirio.
Una cosa a cui ripensare ogni tanto, quando magari ci viene la nostalgia dell’adolescenza.
Perché rendersi conto di quello che siamo riuscite a fare e dire dopo l’addio ci dà la netta sensazione che il peggio sia passato.
Nel delirio post abbandono si scrivevano poesie terribili, con riferimenti funebri al proprio cuore, quasi un requiem per i sentimenti.
Si passava dal divano al letto trascinando le ciabatte infilate in pigiami informi.
Ma quello che la faceva da padrone era la musica.
Ore e ore a riascoltare le stesse cassette, e se non sapete cosa fossero forse siete sul blog sbagliato, se non la stessa canzone.
Quasi mai allegra, quasi sempre d’amore.
Una roba straziante, da terapia di supporto, non per noi è ovvio, noi la terapia la stavamo già facendo, ma per chi era obbligato a vivere con noi.
La mia prima delusione d’amore coincise con l’uscita di una doppia cassetta con il concerto di Gino Paoli e Ornella Vanoni.
Insieme si chiamava.
Ed era veramente bellissimo, un disco epocale.
Due artisti immensi che chiaramente si erano tanto amati e che condividevano il palco con complicità e classe.
Se il tuo umore era normale tendente all’allegro.
Altrimenti era una catastrofe.
Una cosa di uno strazio oltre misura, al limite del suicidio tramite impiccagione direttamente con il nastro.
Ecco è con quel disco che io pensai, in un estate di quasi trent’anni fa, di farmela passare.
Sdraiata per terra sulla moquette, erano gli anni 80, con il radione di fianco e la voce nasale della Vanoni che tentava di convincermi che domani è un altro giorno si vedrà, ma non appena mi pareva di crederci partiva bastarda a ricordarmi non andare via io sarò solo l’ombra, l’ombra della tua ombra, l’ombra della tua mano l’ombra del tuo cane…
E rientravo nel loop dei singhiozzi senza soluzione di continuità, con mia mamma e mia sorella che a turno si affacciavano sulla porta e scrollando la testa commentavano cose tipo: non ha più niente d’umano, sì almeno si è tolta il pigiama, lascia stare non mangia.
Ma poi capita il giorno in cui tutto diventa chiaro.
O almeno per me è stato così.
Interno soggiorno.
Io sdraiata, una tazza di te di fianco, Ornella che mi dice che accettare l’appuntamento è stata una follia e io che penso a non andare via non andare via.
La porta si apre, mia sorella entra, ma non come al solito in punta di piedi, no, entra con passo da bersagliere e ad ampie falcate raggiunge me e il registratore.
Si china, fa scattare il pulsate di stop, quello di eject e togliendo la cassetta la scaraventa con un lancio olimpionico dalla finestra dicendomi secca “adesso mi hai rotto i coglioni”.
E se ne va come una folata di vento, esattamente come era comparsa.
È stato in quel momento, quando la prima cosa a passarmi per la testa fu “cazzo no! l’avevo pagata io, mi piaceva” che capii di essere guarita.
Perché guarire bisogna guarire da soli, ma a volte qualcuno che ti aiuta a capire che sei pronta a girar pagina serve.