
Erano tornati anche questa volta.
Lui ne era felice, doveva ammetterlo, li aspettava.
Li aspettava sempre quando sentiva di diventare più forte, più sicuro, più stabile.
Non erano persone da rischiare loro.
Non come quei ragazzotti incoscienti che arrivavano non appena il freddo diventava più pungente, rischiando di romperlo e di farsi' che venisse collegato a qualche incidente.
Loro no, loro arrivavano da anni quando scivolare con grazia non poteva essere che un piacere.
Lui li conosceva bene.
Forse meglio di quanto li conoscesse chi stava tutto il giorno con loro.
Sapeva cosa fossero uno per l'altra, capiva subito cosa sarebbe successo.
Gli bastava vedere come si allacciavano i pattini, la forza con cui strattonavano le stringhe, di solito lui le toglieva le scarpe con cura e poi l'aiutava ad infilarsi gli scarponcini con le lame.
Lo faceva tenendole delicatamente la caviglia accarezzandola a volte col pollice.
Sempre parlandole guardandola negli occhi.
Ma capitavano giorni diversi, giorni in cui il nervosismo era palpabile.
Lei non si lasciava aiutare e stringeva con forza i lacci, con gesti bruschi e mani tese, intirizzite dal freddo e arrossate sulle punte.
Aveva mani bellissime, mani da pianista, da impastatrice di dolci che sanno di burro e vaniglia, mani capaci di dare amore.
Nei giorni nervosi anche il loro pattinare era differente, molto meno unito, meno armonico, meno affettuoso.
Ma non riuscivano lo stesso a non toccarsi, anche solo per sbaglio, o allungando una mano incrociandosi, mano che l'altro non si rifiutava mai di prendere, magari senza stringerla, solo lasciata così libera e allungata.
Dapprima unita per il palmo e poi lasciata scivolare via con le dita tese verso altre dita, come se avessero una volontà propria di appartenersi.
Lui amava molto che venissero anche in quei momenti.
Gli piaceva l'idea di essere un collante, un qualcosa a cui non potevano rinunciare.
Come se fosse un po' il palcoscenico di quella cosa che erano loro, loro come entità, come tutt'uno.
Negli altri giorni era un incanto vederli piroettare, abbracciarsi lasciarsi andare e riprendersi, era bello essere testimoni di tanta famigliarità di gesti, corpi e pensieri.
Qualche anno prima per un periodo aveva visto solo lui volteggiare, con gli occhi fissi sulla panchina sotto l'albero che lo costeggiava.
E sulla panchina lei, lei che salutava, lei che lo guardava rapita ridendo alle sue buffe evoluzioni.
Poi era tornata l'anno dopo e nulla era cambiato.
Si era sempre chiesto il perché di quel periodo di giri solitari.
Oggi tutto aveva un senso.
Il bambino era apparso dietro le gambe del padre, come timoroso, nascondendosi.
Poteva avere quattro anni, in effetti i conti tornavano.
Uno da una parte e l'altra dall'altra gli tolsero gli stivali colorati e, prendendogli la caviglia accarezzandola delicatamente, gli infilarono gli scarpini.
Adesso era tutto pronto, entrarono sul fondo ghiacciato tenendolo per mano, e facendolo avanzare con calma, rassicurandolo a parole e sorrisi.
Sorrisi che lui ricambiava estasiato guardandoli tamburellando con lo sguardo da una all'altro.
E lui si trovò a pensare che mai ci sarebbero stati graffi più dolci di quelli che quelle sei lame leggere stavano lasciando su di lui.
E desiderò con tutto se stesso che succedesse qualcosa di speciale, qualcosa di magico.
Fu solo quando si accorse che i primi fiocchi di neve cominciavano a volteggiare, avvolgendoli, che capì, ringraziando, che quei tre non piacevano solo a lui.
p.s. questa storia è nata come nascono spesso le mie storie, guardando qualcosa, e questa volta era qualcosa di magico, una fotografia. Una fotografia fatta da una donna speciale, ho questa grande fortuna di conoscere persone di grande sensibilità. Lei ha un blog appena nato stupendo, in cui racconta la vita e i suoi pensieri legandoli alle immagini che scatta...grazie Paola...grazie per avermi dato la possibilità di sognare http://www.paolagobbo.com/
Lui ne era felice, doveva ammetterlo, li aspettava.
Li aspettava sempre quando sentiva di diventare più forte, più sicuro, più stabile.
Non erano persone da rischiare loro.
Non come quei ragazzotti incoscienti che arrivavano non appena il freddo diventava più pungente, rischiando di romperlo e di farsi' che venisse collegato a qualche incidente.
Loro no, loro arrivavano da anni quando scivolare con grazia non poteva essere che un piacere.
Lui li conosceva bene.
Forse meglio di quanto li conoscesse chi stava tutto il giorno con loro.
Sapeva cosa fossero uno per l'altra, capiva subito cosa sarebbe successo.
Gli bastava vedere come si allacciavano i pattini, la forza con cui strattonavano le stringhe, di solito lui le toglieva le scarpe con cura e poi l'aiutava ad infilarsi gli scarponcini con le lame.
Lo faceva tenendole delicatamente la caviglia accarezzandola a volte col pollice.
Sempre parlandole guardandola negli occhi.
Ma capitavano giorni diversi, giorni in cui il nervosismo era palpabile.
Lei non si lasciava aiutare e stringeva con forza i lacci, con gesti bruschi e mani tese, intirizzite dal freddo e arrossate sulle punte.
Aveva mani bellissime, mani da pianista, da impastatrice di dolci che sanno di burro e vaniglia, mani capaci di dare amore.
Nei giorni nervosi anche il loro pattinare era differente, molto meno unito, meno armonico, meno affettuoso.
Ma non riuscivano lo stesso a non toccarsi, anche solo per sbaglio, o allungando una mano incrociandosi, mano che l'altro non si rifiutava mai di prendere, magari senza stringerla, solo lasciata così libera e allungata.
Dapprima unita per il palmo e poi lasciata scivolare via con le dita tese verso altre dita, come se avessero una volontà propria di appartenersi.
Lui amava molto che venissero anche in quei momenti.
Gli piaceva l'idea di essere un collante, un qualcosa a cui non potevano rinunciare.
Come se fosse un po' il palcoscenico di quella cosa che erano loro, loro come entità, come tutt'uno.
Negli altri giorni era un incanto vederli piroettare, abbracciarsi lasciarsi andare e riprendersi, era bello essere testimoni di tanta famigliarità di gesti, corpi e pensieri.
Qualche anno prima per un periodo aveva visto solo lui volteggiare, con gli occhi fissi sulla panchina sotto l'albero che lo costeggiava.
E sulla panchina lei, lei che salutava, lei che lo guardava rapita ridendo alle sue buffe evoluzioni.
Poi era tornata l'anno dopo e nulla era cambiato.
Si era sempre chiesto il perché di quel periodo di giri solitari.
Oggi tutto aveva un senso.
Il bambino era apparso dietro le gambe del padre, come timoroso, nascondendosi.
Poteva avere quattro anni, in effetti i conti tornavano.
Uno da una parte e l'altra dall'altra gli tolsero gli stivali colorati e, prendendogli la caviglia accarezzandola delicatamente, gli infilarono gli scarpini.
Adesso era tutto pronto, entrarono sul fondo ghiacciato tenendolo per mano, e facendolo avanzare con calma, rassicurandolo a parole e sorrisi.
Sorrisi che lui ricambiava estasiato guardandoli tamburellando con lo sguardo da una all'altro.
E lui si trovò a pensare che mai ci sarebbero stati graffi più dolci di quelli che quelle sei lame leggere stavano lasciando su di lui.
E desiderò con tutto se stesso che succedesse qualcosa di speciale, qualcosa di magico.
Fu solo quando si accorse che i primi fiocchi di neve cominciavano a volteggiare, avvolgendoli, che capì, ringraziando, che quei tre non piacevano solo a lui.
p.s. questa storia è nata come nascono spesso le mie storie, guardando qualcosa, e questa volta era qualcosa di magico, una fotografia. Una fotografia fatta da una donna speciale, ho questa grande fortuna di conoscere persone di grande sensibilità. Lei ha un blog appena nato stupendo, in cui racconta la vita e i suoi pensieri legandoli alle immagini che scatta...grazie Paola...grazie per avermi dato la possibilità di sognare http://www.paolagobbo.com/