
Si ricordava perfettamente del giorno in cui l'aveva visto per la prima volta.
Difficile dimenticarsi del giorno che ti ha salvato la vita.
Era sceso come sempre al parco sotto casa.
Era sceso di corsa, a passi concitati giù dalle scale del palazzo.
Scendeva sempre di corsa, temeva che se avesse rallentato gli si sarebbe appiccicato addosso l'odore di minestrone che pervadeva ogni rampa di quelle scale perennemente in penombra come se, per un tacito accordo, le lampadine facessero a turno a bruciarsi.
Forse lo facevano per dispetto ma a lui piaceva pensare lo facessero per compassione.
Sarebbe, altrimenti, stato troppo evidente il degrado, l'intonaco scrostato, le manate sul muro di chi non riusciva a fare a meno di appoggiarsi per salirle.
Lui non toccava mai i muri, non toccava neanche la ringhiera, non voleva che su nulla ci fosse traccia del suo passaggio, e per questo volava.
Volava giù di scalino in scalino, ballatoio in ballatoio verso l'aria del cortile.
Non era un granché quell'aria, era aria di periferia, di motorini accesi nei garage dove i ragazzi giocavano a fare i grandi meccanici, era come se da tutte quelle finestre aperte uscisse fuori l'odore di quelle vite, a volte pesanti, a volte sopportabili sempre da guadagnarsi.
Lui usciva e scappava via, via dalle urla, dalle discussioni, dai silenzi pesanti.
Ed era così che l'aveva incontrato.
Seduto sulla “sua” panchina, quella senza un asse, quella che non usava nessuno, rovinata da un eccesso d'ira, di stupidità, inciviltà, rovinata da chi un po' rovinato lo era già.
Seduto sulla panchina c'era quel vecchio con le carte in mano.
Si vedeva da come le mischiava che le amava molto, che erano qualcosa di speciale per lui.
Le accarezzava piano mentre ne cambiava la disposizione, sembrava quasi non toccarle, sembrava che facessero tutto loro.
Si sedette vicino a lui e il vecchio disse quello che sarebbe diventato il loro modo di stare assieme.
Disse due parole.
Possono due parole cambiare una vita? Fino a quel momento lui non l'avrebbe mai detto.
Il vecchio disse solo scegli una carta.
Il resto divenne storia, divenne ricordi indelebili e indelebile stupore.
Da allora scendere le scale non era una fuga verso un mondo diverso, da allora significò correre verso una promessa di magia.
Pomeriggi interi a vedere le carte sparire, trasformarsi, diventare altro.
Pomeriggi interi a vedere una carta salvarlo.
Il vecchio parlava poco ma insegnava molto.
Capiva quando un gioco lo stava annoiando e allora gli svelava il segreto.
Come a farlo godere fino in fondo dell'incanto per poi permettergli di diventarne parte.
E lui doveva impararlo bene, scoprirne a fondo la manualità, stupirsi del risultato.
Continuò per mesi.
Ancora non aveva avuto il coraggio di mostrare a nessuno quel nuovo modo di essere, quella sua straordinaria vocazione per lo stupore.
Una sera il vecchio prima di salutarlo gli fece una domanda secondo te perché siamo così bravi, perché questi trucchi ci riescono così bene, lui rispose come può fare un bambino abituato ai bei voti grazie allo studio perché ci alleniamo tanto.
Il vecchio sorrise scrollando la testa no, noi siamo bravi perché siamo i primi a crederci, perché crediamo che tutto sia possibile, farle sparire, ritrovarle nei taschini, scambiarle con un soffio, noi crediamo che sia possibile nonostante i trucchi che conosciamo, noi crediamo che una magia possa salvarci la vita.
Lui ci pensò tutta notte e tutto il giorno dopo, che era un giorno importante, il giorno della sua prima comunione, quel giorno in cui la festa era riuscita a salire le scale e il tanfo di brodo stantio pareva quasi sopportabile.
Durante il pranzo lui prese coraggio e incantò tutti con le sue destrezze e mai vide gli occhi dei suoi genitori più orgogliosi di quel figlio strano, che era scappato ogni pomeriggio, ma che alla fine aveva riportato in casa un po' di magia.
Il giorno dopo correva giù verso la panchina, col cuore gonfio e tante cose da raccontare e quella macchina fotografica bellissima, piccola, rossa, regalo di una nonna che forse voleva insegnargli ad inquadrare la vita o più probabilmente era senza fantasia.
Voleva mostrarla al vecchio ma, quando arrivò, la panchina era vuota.
Solo una carta abbandonata sulla seduta.
Come dimenticata o scivolata da un mazzo riposto di fretta.
E, non si sa come, lui capì, capì che il vecchio se n'era andato.
E sorrise.
Era giusto così, immaginò che ci fossero tante vite da salvare a questo mondo e che per la sua ormai non c'era più pericolo.
Adesso era dietro al sipario, stava muovendo con calma il collo come a scioglierne i movimenti.
Voleva sempre stare qualche minuto solo prima che le pesanti tende dei più grandi teatri d'europa s'aprissero e lui iniziasse ad incantare tutti con i suoi gesti fluidi e le sue illusioni.
Maestro, sipario, si va in scena.
Lui fece un cenno con la testa e con la mano si toccò il cuore, nella tasca interna della giacca c'era, come sempre, quella foto, quella che aveva scattato alla panchina vuota.
E ringraziando mentalmente il vecchio salutò il suo pubblico con un inchino profondo.
Difficile dimenticarsi del giorno che ti ha salvato la vita.
Era sceso come sempre al parco sotto casa.
Era sceso di corsa, a passi concitati giù dalle scale del palazzo.
Scendeva sempre di corsa, temeva che se avesse rallentato gli si sarebbe appiccicato addosso l'odore di minestrone che pervadeva ogni rampa di quelle scale perennemente in penombra come se, per un tacito accordo, le lampadine facessero a turno a bruciarsi.
Forse lo facevano per dispetto ma a lui piaceva pensare lo facessero per compassione.
Sarebbe, altrimenti, stato troppo evidente il degrado, l'intonaco scrostato, le manate sul muro di chi non riusciva a fare a meno di appoggiarsi per salirle.
Lui non toccava mai i muri, non toccava neanche la ringhiera, non voleva che su nulla ci fosse traccia del suo passaggio, e per questo volava.
Volava giù di scalino in scalino, ballatoio in ballatoio verso l'aria del cortile.
Non era un granché quell'aria, era aria di periferia, di motorini accesi nei garage dove i ragazzi giocavano a fare i grandi meccanici, era come se da tutte quelle finestre aperte uscisse fuori l'odore di quelle vite, a volte pesanti, a volte sopportabili sempre da guadagnarsi.
Lui usciva e scappava via, via dalle urla, dalle discussioni, dai silenzi pesanti.
Ed era così che l'aveva incontrato.
Seduto sulla “sua” panchina, quella senza un asse, quella che non usava nessuno, rovinata da un eccesso d'ira, di stupidità, inciviltà, rovinata da chi un po' rovinato lo era già.
Seduto sulla panchina c'era quel vecchio con le carte in mano.
Si vedeva da come le mischiava che le amava molto, che erano qualcosa di speciale per lui.
Le accarezzava piano mentre ne cambiava la disposizione, sembrava quasi non toccarle, sembrava che facessero tutto loro.
Si sedette vicino a lui e il vecchio disse quello che sarebbe diventato il loro modo di stare assieme.
Disse due parole.
Possono due parole cambiare una vita? Fino a quel momento lui non l'avrebbe mai detto.
Il vecchio disse solo scegli una carta.
Il resto divenne storia, divenne ricordi indelebili e indelebile stupore.
Da allora scendere le scale non era una fuga verso un mondo diverso, da allora significò correre verso una promessa di magia.
Pomeriggi interi a vedere le carte sparire, trasformarsi, diventare altro.
Pomeriggi interi a vedere una carta salvarlo.
Il vecchio parlava poco ma insegnava molto.
Capiva quando un gioco lo stava annoiando e allora gli svelava il segreto.
Come a farlo godere fino in fondo dell'incanto per poi permettergli di diventarne parte.
E lui doveva impararlo bene, scoprirne a fondo la manualità, stupirsi del risultato.
Continuò per mesi.
Ancora non aveva avuto il coraggio di mostrare a nessuno quel nuovo modo di essere, quella sua straordinaria vocazione per lo stupore.
Una sera il vecchio prima di salutarlo gli fece una domanda secondo te perché siamo così bravi, perché questi trucchi ci riescono così bene, lui rispose come può fare un bambino abituato ai bei voti grazie allo studio perché ci alleniamo tanto.
Il vecchio sorrise scrollando la testa no, noi siamo bravi perché siamo i primi a crederci, perché crediamo che tutto sia possibile, farle sparire, ritrovarle nei taschini, scambiarle con un soffio, noi crediamo che sia possibile nonostante i trucchi che conosciamo, noi crediamo che una magia possa salvarci la vita.
Lui ci pensò tutta notte e tutto il giorno dopo, che era un giorno importante, il giorno della sua prima comunione, quel giorno in cui la festa era riuscita a salire le scale e il tanfo di brodo stantio pareva quasi sopportabile.
Durante il pranzo lui prese coraggio e incantò tutti con le sue destrezze e mai vide gli occhi dei suoi genitori più orgogliosi di quel figlio strano, che era scappato ogni pomeriggio, ma che alla fine aveva riportato in casa un po' di magia.
Il giorno dopo correva giù verso la panchina, col cuore gonfio e tante cose da raccontare e quella macchina fotografica bellissima, piccola, rossa, regalo di una nonna che forse voleva insegnargli ad inquadrare la vita o più probabilmente era senza fantasia.
Voleva mostrarla al vecchio ma, quando arrivò, la panchina era vuota.
Solo una carta abbandonata sulla seduta.
Come dimenticata o scivolata da un mazzo riposto di fretta.
E, non si sa come, lui capì, capì che il vecchio se n'era andato.
E sorrise.
Era giusto così, immaginò che ci fossero tante vite da salvare a questo mondo e che per la sua ormai non c'era più pericolo.
Adesso era dietro al sipario, stava muovendo con calma il collo come a scioglierne i movimenti.
Voleva sempre stare qualche minuto solo prima che le pesanti tende dei più grandi teatri d'europa s'aprissero e lui iniziasse ad incantare tutti con i suoi gesti fluidi e le sue illusioni.
Maestro, sipario, si va in scena.
Lui fece un cenno con la testa e con la mano si toccò il cuore, nella tasca interna della giacca c'era, come sempre, quella foto, quella che aveva scattato alla panchina vuota.
E ringraziando mentalmente il vecchio salutò il suo pubblico con un inchino profondo.