
Questo mese e' in uscita un nuovo numero di XRun, la rivista con cui collaboro da ormai due anni, c'e' un mio articolo a cui sono molto affezionata, si parla di atletica e di ragazzini che decidono di faticare e mettersi alla prova, del lavoro del genitore di un giovane che sceglie di impegnarsi in quella che e' la disciplina piu' diffusa al mondo.
In occasione di questo vi ripropongo gli articoli pubblicati fin ora... questo e' il primo buona lettura....
Dolore.
Il ginocchio, da parecchio tempo a questa parte, è sinonimo di dolore.
Dolore pungente penetrante, dolore latente alternante.
Quattro anni fa, dopo una vita da non-sportiva, mi sono ammalata.
Di una malattia bella, che fa bene, migliora fisico e mente e fa spuntare sorrisi dove ci sono grugni.
Mi sono ammalata di corsa.
Adesso è diventato difficile, dovrei fare, secondo il medico, una montagna di sport alternativi per potermi togliere lo sfizio di una corsetta.
Inutile dire che non intendo cedere, farò quel che serve, anche se , per quel che serve, bisogna avere tempo.
Non riesco però a pensare a me come un ex-runner, non ce la faccio, parlo di corsa al presente, perché il presente senza di lei è fatto di nervosismi, chili in più e mal di testa.
Io non vado veloce: a me basta andare.
Ma per andare a volte servono i salti mortali.
Se la parola d'ordine per le donne che hanno una famiglia è ottimizzare, per quelle che fanno un attività sportiva diventa un dogma.
È un grande gioco ad incastro dove far stare un sacco di cose, tutte diverse, tutte richiedenti ritmi e stili differenti e tutte ugualmente importanti.
Lavoro, spesa, attività extrascolastiche dei figli, incombenze di genitori e suoceri, riunioni scolastiche, sempre in orari da galera, feste di compleanno, pranzi e cene.
Scegliendo però di correre sono stata, in prima battuta, avvantaggiata.
Minima spesa e massima resa e non solo in termini pecuniari.
Niente tempo buttato in spostamenti tra casa e palestra, pause in spogliatoi gremiti, docce e phon tisici.
A me non serve nulla, serve solo una strada.
Cambiarsi a casa, cercare i calzini e infilarsi le scarpe è un rito mio che non condivido con nessuno.
Il mio portachiavi poi, è un portachiavi da runner.
Gli anelli sono due, così da poter sfilare facilmente quello con le chiavi che servono, cancello e porta: il resto è solo volume.
Quando corro sono così, senza fronzoli, vezzi e manierismi: solo cuore e anima in movimento.
Quando corro non mi serve nulla se non le gambe e il fiato, e dove non arrivano loro arriverà la mente e appunto il cuore.
E fin qui potrebbe sembrare perfetto se non fosse che, in fondo, sono , come dicevo, una malata tendente all'accumulo compulsivo.
In palestra, soprattutto se si frequentano corsi, gli accordi sono chiari: due o tre volte la settimana da quest'ora a quell'altra.
Ma se non serve pagare una retta e l'unico ostacolo sono le mie gambe il discorso cambia.
Dopo le prime tre settimane le uscite da due sono diventate tre arrivando poi ad aumentare fin che cedimenti rotulei non ci hanno separato, ma continuo lo stesso a fare magie con il tempo.
Ho provato a correggere compiti, mentre fuori imperversava un temporale epico, andando a cinque al chilometro sul tapis roulant con un 3 di dislivello.
Non è stato facile capire l'errore di un'espressione o correggere una consecuzio temporale sbuffando come mantice e sudando come un muflone.
Senza parlare di quando, contando sull'ora e un quarto di catechismo, decido di sfruttarla.
È stupendo vedermi arrivare, tra madri intacchettate e giudicanti, non tutte per carità, carica di umidità che, illuminata dalle luci artificiali e impietose del cortile dell'oratorio, si manifesta sotto forma di nuvole si vapore che mi avvolgono come in un film noir francese degli anni '40.
Ma non mi importa.
Ho capito, tempo fa, che il tempo che prendo per me è tempo migliore che do ai miei figli.
Con buona pace dello stile.
Ho capito che, a volte, per stare di più con “gli altri”, è necessario starci un po' meno.
Perché se sei in pace con il mondo, il tuo mondo ne guadagna.
Ma non è stato semplice.
Regina,come tutte le donne, dei sensi di colpa, sono cresciuta pensando che sia sempre mio dovere uniformarmi alle aspettative altrui.
Ci ho messo del tempo per ritagliarmi momenti in cui essere sola significasse stare con me stessa.
Mi pareva di sottrarre minuti e energie a chi, su di me, faceva affidamento.
Ma così finivo solo per offrire agli altri una me mortificata.
Solo un immagine offuscata di quello che avrei potuto essere.
Una me nervosa, meno appagata e rilassata: una me pesante.
Spesso in tutti i sensi.
E quando io sono pesante nel senso fisico del termine divento una rompiscatole di dimensioni stratosferiche.
Sarebbe, in quei momenti opportuno che, figli e marito,mi infilassero a forza gli scarpini e mi buttassero fuori casa.
Ci guadagneremmo tutti.
Bisogna trovare il tempo, regalarcelo e usarlo per inseguire i nostri sogni.
Io amo scrivere, giocare con le parole è la cosa che più mi appaga.
Le cose scritte che più mi rendono fiera le ho elaborate macinando chilometri.
Ma questo è il mio modo di correre, ce ne sono tanti, alcuni importanti, alcuni futili e tutti questi modi sono speciali.
C'è poi chi corre per entrare nei jeans dei suoi vent'anni, quelli belli, quelli comprati con il primo stipendio, quelli in cui si sentiva splendida.
Chi le scarpe se le allaccia per migliorare i propri tempi.
Allora sono lunghi lenti, ripetute, esercizi tecnici massacranti che faranno guadagnare quella manciata di secondi al chilometro che farà la differenza tra correre e vincere.
Anche solo contro noi stesse.
Chi ha una sfida aperta con i chilometri e la montagna.
Quella montagna meravigliosa e dura che ti regala paesaggi da togliere il fiato e stanchezza da togliere il sonno.
Ma per giocare una partita così, non ti puoi inventare: devi soffrire.
Macinare metri e tempi, con freddo e neve, sapendo che lassù sarà una prova senza appello.
Ma non è necessario avere uno scopo così nobile e introspettivo.
Può bastare un'antagonista antipatica.
Inutile fare le pure e le generose.
Siamo sportive e corrette, non ci chiedete di essere anche nobili.
La nobiltà non sempre paga o almeno non quanto aver battuto la rivale sul filo di lana.
Anche il gusto di una doccia calda fatta dopo la fatica fisica a volte può bastare.
Poche cose sono gratificanti quanto l'acqua bollente che distende i muscoli spossati dopo un'intensa fatica.
L'importante è, e resta, il suono dei nostri passi sull'asfalto.
Correre.
Correre lontano dai pensieri, dalle cattiverie, dalle preoccupazioni, magari da malattie che colpiscono dei corpi che non ci appartengono ma che vivono con pezzi di cuore e anima nostri.
Correre incontro a sogni, pensieri, progetti e concetti.
Per schiarirsi la mente e cambiare la prospettiva, capire dove si sbaglia, dove si ha ragione.
E che, a volte, avere ragione è molto peggio.
Non credo esista nessuna attività sportiva che dia la stessa sensazione di avanzamento.
Non fisico, quello è scontato, ma mentale.
È come se i pensieri fatti in movimento prendano vita e seguano una direzione solo in parte indicata da noi.
Hanno brusche virate e stop improvvisi, accelerate e lenti ritmi: esattamente come un corsa.
E le virate e gli stop sono essenziali per capire le nostre anime che durante le convulse giornate sono sempre compresse e represse da ruoli e responsabilità.
Per assurdo mi pare che l'unico momento, se escludiamo quando scrivo, in cui la mia sia limpida, scrutabile e capibile è quando il suono cadenzato dei miei passi sull'asfalto la culla e la calma.
Tutto si fa più chiaro, i problemi si ridimensionano, le soluzioni sembrano più a portata di mano.
Perdonare diventa più semplice.
Anche perdonare me stessa.
Perciò, in fine, benedetta sia qualsiasi cosa che ci spinge ad uscire e ad andare.
Perché, anche se tutte noi corriamo per motivi diversi, abbiamo lo stesso obbiettivo: tornare in qualche modo migliori.
In occasione di questo vi ripropongo gli articoli pubblicati fin ora... questo e' il primo buona lettura....
Dolore.
Il ginocchio, da parecchio tempo a questa parte, è sinonimo di dolore.
Dolore pungente penetrante, dolore latente alternante.
Quattro anni fa, dopo una vita da non-sportiva, mi sono ammalata.
Di una malattia bella, che fa bene, migliora fisico e mente e fa spuntare sorrisi dove ci sono grugni.
Mi sono ammalata di corsa.
Adesso è diventato difficile, dovrei fare, secondo il medico, una montagna di sport alternativi per potermi togliere lo sfizio di una corsetta.
Inutile dire che non intendo cedere, farò quel che serve, anche se , per quel che serve, bisogna avere tempo.
Non riesco però a pensare a me come un ex-runner, non ce la faccio, parlo di corsa al presente, perché il presente senza di lei è fatto di nervosismi, chili in più e mal di testa.
Io non vado veloce: a me basta andare.
Ma per andare a volte servono i salti mortali.
Se la parola d'ordine per le donne che hanno una famiglia è ottimizzare, per quelle che fanno un attività sportiva diventa un dogma.
È un grande gioco ad incastro dove far stare un sacco di cose, tutte diverse, tutte richiedenti ritmi e stili differenti e tutte ugualmente importanti.
Lavoro, spesa, attività extrascolastiche dei figli, incombenze di genitori e suoceri, riunioni scolastiche, sempre in orari da galera, feste di compleanno, pranzi e cene.
Scegliendo però di correre sono stata, in prima battuta, avvantaggiata.
Minima spesa e massima resa e non solo in termini pecuniari.
Niente tempo buttato in spostamenti tra casa e palestra, pause in spogliatoi gremiti, docce e phon tisici.
A me non serve nulla, serve solo una strada.
Cambiarsi a casa, cercare i calzini e infilarsi le scarpe è un rito mio che non condivido con nessuno.
Il mio portachiavi poi, è un portachiavi da runner.
Gli anelli sono due, così da poter sfilare facilmente quello con le chiavi che servono, cancello e porta: il resto è solo volume.
Quando corro sono così, senza fronzoli, vezzi e manierismi: solo cuore e anima in movimento.
Quando corro non mi serve nulla se non le gambe e il fiato, e dove non arrivano loro arriverà la mente e appunto il cuore.
E fin qui potrebbe sembrare perfetto se non fosse che, in fondo, sono , come dicevo, una malata tendente all'accumulo compulsivo.
In palestra, soprattutto se si frequentano corsi, gli accordi sono chiari: due o tre volte la settimana da quest'ora a quell'altra.
Ma se non serve pagare una retta e l'unico ostacolo sono le mie gambe il discorso cambia.
Dopo le prime tre settimane le uscite da due sono diventate tre arrivando poi ad aumentare fin che cedimenti rotulei non ci hanno separato, ma continuo lo stesso a fare magie con il tempo.
Ho provato a correggere compiti, mentre fuori imperversava un temporale epico, andando a cinque al chilometro sul tapis roulant con un 3 di dislivello.
Non è stato facile capire l'errore di un'espressione o correggere una consecuzio temporale sbuffando come mantice e sudando come un muflone.
Senza parlare di quando, contando sull'ora e un quarto di catechismo, decido di sfruttarla.
È stupendo vedermi arrivare, tra madri intacchettate e giudicanti, non tutte per carità, carica di umidità che, illuminata dalle luci artificiali e impietose del cortile dell'oratorio, si manifesta sotto forma di nuvole si vapore che mi avvolgono come in un film noir francese degli anni '40.
Ma non mi importa.
Ho capito, tempo fa, che il tempo che prendo per me è tempo migliore che do ai miei figli.
Con buona pace dello stile.
Ho capito che, a volte, per stare di più con “gli altri”, è necessario starci un po' meno.
Perché se sei in pace con il mondo, il tuo mondo ne guadagna.
Ma non è stato semplice.
Regina,come tutte le donne, dei sensi di colpa, sono cresciuta pensando che sia sempre mio dovere uniformarmi alle aspettative altrui.
Ci ho messo del tempo per ritagliarmi momenti in cui essere sola significasse stare con me stessa.
Mi pareva di sottrarre minuti e energie a chi, su di me, faceva affidamento.
Ma così finivo solo per offrire agli altri una me mortificata.
Solo un immagine offuscata di quello che avrei potuto essere.
Una me nervosa, meno appagata e rilassata: una me pesante.
Spesso in tutti i sensi.
E quando io sono pesante nel senso fisico del termine divento una rompiscatole di dimensioni stratosferiche.
Sarebbe, in quei momenti opportuno che, figli e marito,mi infilassero a forza gli scarpini e mi buttassero fuori casa.
Ci guadagneremmo tutti.
Bisogna trovare il tempo, regalarcelo e usarlo per inseguire i nostri sogni.
Io amo scrivere, giocare con le parole è la cosa che più mi appaga.
Le cose scritte che più mi rendono fiera le ho elaborate macinando chilometri.
Ma questo è il mio modo di correre, ce ne sono tanti, alcuni importanti, alcuni futili e tutti questi modi sono speciali.
C'è poi chi corre per entrare nei jeans dei suoi vent'anni, quelli belli, quelli comprati con il primo stipendio, quelli in cui si sentiva splendida.
Chi le scarpe se le allaccia per migliorare i propri tempi.
Allora sono lunghi lenti, ripetute, esercizi tecnici massacranti che faranno guadagnare quella manciata di secondi al chilometro che farà la differenza tra correre e vincere.
Anche solo contro noi stesse.
Chi ha una sfida aperta con i chilometri e la montagna.
Quella montagna meravigliosa e dura che ti regala paesaggi da togliere il fiato e stanchezza da togliere il sonno.
Ma per giocare una partita così, non ti puoi inventare: devi soffrire.
Macinare metri e tempi, con freddo e neve, sapendo che lassù sarà una prova senza appello.
Ma non è necessario avere uno scopo così nobile e introspettivo.
Può bastare un'antagonista antipatica.
Inutile fare le pure e le generose.
Siamo sportive e corrette, non ci chiedete di essere anche nobili.
La nobiltà non sempre paga o almeno non quanto aver battuto la rivale sul filo di lana.
Anche il gusto di una doccia calda fatta dopo la fatica fisica a volte può bastare.
Poche cose sono gratificanti quanto l'acqua bollente che distende i muscoli spossati dopo un'intensa fatica.
L'importante è, e resta, il suono dei nostri passi sull'asfalto.
Correre.
Correre lontano dai pensieri, dalle cattiverie, dalle preoccupazioni, magari da malattie che colpiscono dei corpi che non ci appartengono ma che vivono con pezzi di cuore e anima nostri.
Correre incontro a sogni, pensieri, progetti e concetti.
Per schiarirsi la mente e cambiare la prospettiva, capire dove si sbaglia, dove si ha ragione.
E che, a volte, avere ragione è molto peggio.
Non credo esista nessuna attività sportiva che dia la stessa sensazione di avanzamento.
Non fisico, quello è scontato, ma mentale.
È come se i pensieri fatti in movimento prendano vita e seguano una direzione solo in parte indicata da noi.
Hanno brusche virate e stop improvvisi, accelerate e lenti ritmi: esattamente come un corsa.
E le virate e gli stop sono essenziali per capire le nostre anime che durante le convulse giornate sono sempre compresse e represse da ruoli e responsabilità.
Per assurdo mi pare che l'unico momento, se escludiamo quando scrivo, in cui la mia sia limpida, scrutabile e capibile è quando il suono cadenzato dei miei passi sull'asfalto la culla e la calma.
Tutto si fa più chiaro, i problemi si ridimensionano, le soluzioni sembrano più a portata di mano.
Perdonare diventa più semplice.
Anche perdonare me stessa.
Perciò, in fine, benedetta sia qualsiasi cosa che ci spinge ad uscire e ad andare.
Perché, anche se tutte noi corriamo per motivi diversi, abbiamo lo stesso obbiettivo: tornare in qualche modo migliori.