
Aveva le mani immerse nella schiuma.
Quella scansafatiche della lavastoviglie aveva scelto un bel giorno per decidere di scioperare.
Non che facesse un lavoro magistrale, ma almeno una parvenza di lavaggio di solito la dava, se i piatti erano già stati passati con lo scopino del cesso, come lo chiamava la sua amica Giuliana quando voleva prenderla in giro.
Ovviamente lo stop l’aveva dato proprio nella sera in cui lei aveva deciso di essere alle selezioni per master chef e aveva stupito la giuria più critica del mondo con effetti speciali e un crumble affogato nella crema calda.
Ma in fondo lavare i piatti non le era mai dispiaciuto, le mani immerse nell’acqua calda, il sapone spumoso ad accarezzarle e le cuffie inserite nel telefono per sentire la musica.
Poteva pensare tranquilla, in un mondo come ovattato, fatto di calore e note.
Stava pensando a Martina e alla sua fissazione per il principe azzurro.
L’aveva appena fatta addormentare e per farlo la domanda era sempre quella mi leggi una fiaba?
Non era importante quale, bastava solo ci fosse uno straccio di cavaliere che alla fine strappasse la principessa dal suo destino crudele.
Qualcuno che la salvasse.
E’ normale, pensò, insegnamenti atavici, la donna vista come creatura fragile da proteggere dalle avversità del mondo.
In fondo non era proprio del tutto sbagliato, con buona pace della parità e dell’emancipazione, c’erano un sacco di situazioni in cui due braccia forti, che ti facessero capire che tutto sarebbe andato bene, erano gradite.
Solo non credeva affatto bastasse quello, forse perché non le erano mai piaciute le mise monocromatiche o solo per il fatto che l’azzurro non era tra i suoi colori preferiti.
Il principe non poteva avere un armadio così limitato.
Il vero principe doveva aver a disposizione un atelier completo e niente sfumature, colori decisi, intercambiabili: doveva essere un trasformista.
Come quello bravo, quello che si cambiava in un attimo, come si chiamava…Brachetti! Ecco il vero principe, per guadagnarsi il titolo doveva essere come lui.
Cambiarsi l’abito nel tempo di un respiro.
Doveva essere giallo mentre rideva a crepapelle con te di stupidaggini senza senso, verde quando l’ansia ti prendeva e lui cercava di calmarti dicendo che andava tutto bene, arancione nei giorni spensierati, blu notte quando doveva avere la decisione che a te mancava, viola per travolgerti in un abbraccio e baciarti come se un domani non dovesse esserci.
Sì viola…che rosso era troppo scontato, troppo inflazionato, come quelle rose algide e dal gambo lungo troppo spesso regalate per farsi perdonare qualcosa.
E poi rosa per asciugarti una lacrima davanti a un film, marrone per le giornate autunno quando cuoceva castagne sul fuoco del camino, bianco come la neve mentre ti diceva ti amo.
Ma anche nero nei contrasti e grigio quando voleva ostentare indifferenza.
Perché il principe non doveva solo farti bene, poteva anche colpirti al cuore.
Non si era mai fidata di quelli che sembrano non ferirti mai.
Sono troppo poco abituati a chiedere scusa.
Invece un principe che si rispetti doveva saperlo fare.
Domani l’avrebbe fatto, avrebbe scritto lei una fiaba, una da leggerle prima d’addormentarsi; appena si svegliava; da scriverle sul muro di camera sua, cosi’ che non si accontentasse di essere salvata ma pretendesse di essere amata.
Stava sciacquando l’ultimo bicchiere, godendo dell’attrito che il vetro pulito regala alle dita bagnate, quando sentì una carezza sul fianco.
Spostò la testa piegandola verso sinistra così da far scivolare i capelli e scoprire il collo.
Il bacio non tardò ad arrivare.
C’era familiarità in quel gesto, c’era complicità…c’erano un sacco di cose.
Il suo principe in technicolor si staccò da lei e dandole una pacca sul sedere uscì dalla stanza.
Visto? Non era difficile, dal viola all’arancione in un lampo.
Chiuse l’acqua e ci pensò, Principe in technicolor…si’ era un buon titolo per una fiaba.
Quella scansafatiche della lavastoviglie aveva scelto un bel giorno per decidere di scioperare.
Non che facesse un lavoro magistrale, ma almeno una parvenza di lavaggio di solito la dava, se i piatti erano già stati passati con lo scopino del cesso, come lo chiamava la sua amica Giuliana quando voleva prenderla in giro.
Ovviamente lo stop l’aveva dato proprio nella sera in cui lei aveva deciso di essere alle selezioni per master chef e aveva stupito la giuria più critica del mondo con effetti speciali e un crumble affogato nella crema calda.
Ma in fondo lavare i piatti non le era mai dispiaciuto, le mani immerse nell’acqua calda, il sapone spumoso ad accarezzarle e le cuffie inserite nel telefono per sentire la musica.
Poteva pensare tranquilla, in un mondo come ovattato, fatto di calore e note.
Stava pensando a Martina e alla sua fissazione per il principe azzurro.
L’aveva appena fatta addormentare e per farlo la domanda era sempre quella mi leggi una fiaba?
Non era importante quale, bastava solo ci fosse uno straccio di cavaliere che alla fine strappasse la principessa dal suo destino crudele.
Qualcuno che la salvasse.
E’ normale, pensò, insegnamenti atavici, la donna vista come creatura fragile da proteggere dalle avversità del mondo.
In fondo non era proprio del tutto sbagliato, con buona pace della parità e dell’emancipazione, c’erano un sacco di situazioni in cui due braccia forti, che ti facessero capire che tutto sarebbe andato bene, erano gradite.
Solo non credeva affatto bastasse quello, forse perché non le erano mai piaciute le mise monocromatiche o solo per il fatto che l’azzurro non era tra i suoi colori preferiti.
Il principe non poteva avere un armadio così limitato.
Il vero principe doveva aver a disposizione un atelier completo e niente sfumature, colori decisi, intercambiabili: doveva essere un trasformista.
Come quello bravo, quello che si cambiava in un attimo, come si chiamava…Brachetti! Ecco il vero principe, per guadagnarsi il titolo doveva essere come lui.
Cambiarsi l’abito nel tempo di un respiro.
Doveva essere giallo mentre rideva a crepapelle con te di stupidaggini senza senso, verde quando l’ansia ti prendeva e lui cercava di calmarti dicendo che andava tutto bene, arancione nei giorni spensierati, blu notte quando doveva avere la decisione che a te mancava, viola per travolgerti in un abbraccio e baciarti come se un domani non dovesse esserci.
Sì viola…che rosso era troppo scontato, troppo inflazionato, come quelle rose algide e dal gambo lungo troppo spesso regalate per farsi perdonare qualcosa.
E poi rosa per asciugarti una lacrima davanti a un film, marrone per le giornate autunno quando cuoceva castagne sul fuoco del camino, bianco come la neve mentre ti diceva ti amo.
Ma anche nero nei contrasti e grigio quando voleva ostentare indifferenza.
Perché il principe non doveva solo farti bene, poteva anche colpirti al cuore.
Non si era mai fidata di quelli che sembrano non ferirti mai.
Sono troppo poco abituati a chiedere scusa.
Invece un principe che si rispetti doveva saperlo fare.
Domani l’avrebbe fatto, avrebbe scritto lei una fiaba, una da leggerle prima d’addormentarsi; appena si svegliava; da scriverle sul muro di camera sua, cosi’ che non si accontentasse di essere salvata ma pretendesse di essere amata.
Stava sciacquando l’ultimo bicchiere, godendo dell’attrito che il vetro pulito regala alle dita bagnate, quando sentì una carezza sul fianco.
Spostò la testa piegandola verso sinistra così da far scivolare i capelli e scoprire il collo.
Il bacio non tardò ad arrivare.
C’era familiarità in quel gesto, c’era complicità…c’erano un sacco di cose.
Il suo principe in technicolor si staccò da lei e dandole una pacca sul sedere uscì dalla stanza.
Visto? Non era difficile, dal viola all’arancione in un lampo.
Chiuse l’acqua e ci pensò, Principe in technicolor…si’ era un buon titolo per una fiaba.